Maurizio Sciaccaluga

L'Unione Sarda, 17 giugno 1999

 

Coraggioso ma disattento, votato al rinnnovamento ma troppo generoso nei confronti di linguaggi freddi e cerebrali, Harald Szeemann ha dato vita, a Venezia, a una Biennale d'arte contemporanea difficile da giudicare, parimenti ricca di geniali intuizioni quanto di preoccupanti cadute di tono. Se da una parte il curatore svizzero ha saputo regalare una grande opportunità a una generazione di giovani artisti troppo a lungo ignorata - perché schiacciata dal peso oramai oppressivo di Arte Povera, Transavanguardia e Nouveau Réalisme (gli artefici europei) o perché apparentemente a culture lontane da quelle che storicamente detengono il potere economico e promozionale (gli asiatici) - dall'altra parte, Szeemann non ha offerto alla manifestazione quell'unità teorica di fondo e quel minimo livello qualitativo che avrebbero potuto connotarla quale importante punto di partenza per future riflessioni.

Già il titolo, in questo senso, è una non-escelta: Passato Presente Futuro di Germano Celant (1997). Non presuppone una linea critica e selettiva, non suggerisce quali ragioni storiche giustifichino l'abbondanza di artisti cinesi e installazioni multimediali. Denuncia soltanto l'intenzione (ovvia, come da statuto) di guardarsi intorno con attenzione, di proporre una visione panoramica di quanto accade nella ricerca attuale. In catalogo manca addirittura una prefazione degna di questo nome, un testo che spieghi e motivi quali criteri siano stati adottati al momento di formulare gli inviti.

Eppure un'introduzione sarebbe stata necessaria, visto che panoramica allestita da Szeemann presenta numerose zone d'ombra: alla grande indulgenza mostrata nei confronti dei pittori cinesi (raramente all'altezza) corrispondono la rigorosa intransigenza e l'indifferenza di cui è stata oggetto la pittura europea, all'ingente quantità di opere video equivale il disinteresse totale verso le nuove frontiere della creatività (arte in rete, grafica in tre dimensioni, videoclip, pubblicità). Proprio la video-arte è croce e delizia di questa 48' edizione della Biennale: al fianco di lavoro di straordinaria intensità quali Through a looking glass dello scozzese Douglas Gordon e Stereoscope del sudafricano William Kentridge - capaci di riflettere sul rapporto che lega l'arte visiva al prodotto cinematografico o al disegno animato - è presente una moltitudine di autori assolutamente incapace di incuriosire lo spettatore, in ritardo sui tempi (le Factories di Andy Warhol e Peter Gabriel hanno già fatto questo e altro) o semplicemente meno interessanti visivamente dei quadri elettronici di un videogame e degli spot dello Yogurt Muller. Addirittura una ricerca importante come quella di Bruce Nauman sembra qui male testimoniata.

Circa la nutrita rappresentanza di artisti cinesi e la scarna selezione di italiani è impossibile non nutrire dubbi e perplessità. I primi rischiano di apparire patetici nella loro ingenuità, incapaci di comunicare alcunché a un pubblico lontano per tradizione e cultura. Esporli quali valori assoluti dell'arte mondiale significa ottenere un effetto contrario a quello desiderato, quasi tradire un atteggiamento colonialista improntato sulla logica del "buon selvaggio" ispirata da Jean Jacques Rousseau. Anche i secondi, gli italiani, appaiono inadeguati al grande evento. Seppur giusto andare finalmente oltre gli intoccabili - poveristi e transavanguardia - non si capisce bene perché mandare allo sbaraglio una manciata di autori inesperti, immaturi per grandi platee, dotati esclusivamente di sponsorizzazioni doc. Dimenticando proprio quella generazione di artisti, nati tra il 1953 e il 1960, che maggiormente ha patito l'osmosi culturale imperante fino a oggi. A parte Perino & Vele, i più giovani e più bravi, gli altri si limitano a proporre nuove versioni di vecchi lavori (Pivi e Toderi), fanno il verso a ricerche - Casabere e Cragg - ben più espressive delle loro (Lambri e Rizzoli), dimostrano una disarmante pochezza poetica (Bartolini, Lucariello, Esposito e Ora Locale).

A questo vanno aggiunti gli scadenti omaggi a Schifano e De Dominicis e la sconcertante presenza di Progetto Oreste, sedicente organizzazione di artisti e critici in grado di far incontrare, confrontare e discutere gli operatori del settore (ma probabilmente una bocciofila avrebbe maggiore credibilità e dignità). Tutte le lacune fin qui enunciate sono però conseguenza del grande merito di Szeemann: aver lasciato mano libera agli artisti, rinunciando a un ruolo di preminenza per consentire che l'evento si traformasse in un vero e proprio laboratorio. Piuttosto che comunicare una visione univoca del momento storico in voga, o riproporre quel culto della personalità (del critico) tanto caro a Bonito Oliva e Celant, Harald Szeemann ha demandato agli autori scelte e responsabilità, ripristinando l'antico sogno di una Biennale gestita dagli artisti stessi.

Cosi, oltre alle pecche sono molte anche le opere degne di menzione. Wolfang Laib, stendendo in modo geometrico del polline di tarassaco su un pavimento bianco, riesce ad andare al di là d'ogni precedente ricerca cromatica e razionalista, trovando un'abbagliante profondità nel giallo naturale dell'elemento vegetale, Katharine Fritsch presenta Rat King, gigantesca installazione del 1992 costituita a sedici grandi statue rappresentanti grandi ratti seduti in cerchio, incatenati l'un l'altro tramite le code. Il belga Wim Delwoye continua a correlare forme e materiali apparentemente incoerenti, legati a idee socialmente incompatibili. Dopo la porta costruita con i vetri a mosaico di una cattedrale, dopo gli stemmi araldici dipinti su pale e vanghe, ecco alla Biennale una betoniera in scala 1:1, realizzata in legno di tek completamente intagliato a mano, secondo la maniera dei grandi artigiani fiamminghi.

In un video di Antoni Abad, catalano di Barcellona, alcuni topi ripresi dall'alto mangiano a tocchi una pizza a forma di cuore, in cui la mozzarella disegna la parola "Love". Simone Aabey Kaern, trentenne danese, allestisce una galleria di ritratti di donne pilota, eroine dell'aeronautica del secondo conflitto. Nella sala della mostra, costruita come un hangar, i rumori assordanti del decollo di un aereo stordiscono gli spettatori e provocando preoccupanti immedesimazione. Pierino & Vele, napoletani venticinquenni, costruiscono in cartapesta una pelle d'elefante, su cui adagiano due poltrone in legno riuproponendo il tipico salotto da amante della caccia grossa del'Inghilterra vittoriana. La loro pratica ironica dell'arte si dimostra degna della

Biennale, degna di essere vicina a opere come quelle di Richard Jackson, Rosemarie Trockel (Padiglione Tedesco), Tatsuo Miyajima (Padiglione giapponese) e Costas Varotsos (Padiglione greco).